Domenica, fuori piove. Ho scritto quasi tutto il weekend. Il romanzo procede spedito, i personaggi conoscono le loro battute a memoria. Qualcosa bussa alla porta. È una storia, anzi un pensiero, una scena, un’idea. Non so come chiamarla, per cui la chiamerò incipit. Eccolo…
«A ogni abitante – uomo, donna, bambino – era stato intimato, prima di cominciare la giornata, di piantare un coltello nella terra nuda. Con la lama all’insù. Alla fine dei primi cinque anni, la distesa irta di metallo era diventata una contrada; dopo quindici un piccolo (oscuro) regno… Nulla vi cresceva e nulla poteva attraversarla. Solo pioggia, ghiaccio e neve ebbero licenza di sostare tra i coltelli. E la ruggine, ovvio, che cresceva giorno dopo giorno come gramigna infestante. Ma era il sole a creare lo spettacolo più grande. L’alba e il tramonto affilavano le lame come nessun armaiolo avrebbe saputo fare…
Andavo a compiere il mio dovere ogni mattino, prima che facesse giorno, solo a me era dato occuparmene. Ero diventato, mio malgrado, il signore di un regno morto e acuminato. Lo spazzino dei piccoli animali da pelliccia che, agognando la libertà, rimanevano infilzati nell’acciaio e nel ferro. Un giorno, trafitto da un rosario di punte, trovai nel campo un bambino con i piedi scalzi…». (domenica 18 gennaio 2015)
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