Arriva finalmente in ebook uno dei miei racconti più conosciuti. Parla di un mondo post-apocalittico in cui il tempo è semplicemente andato avanti a velocità diverse, dentro e fuori dalle automobili. A fronteggiarsi, tra svincoli autostradali e asfalto spaccato, “paguri” e “No-tech”. Un assaggio…
“E quando, alla fine, il cielo si accese di un bagliore di fuoco i figli della Città non trovarono nulla di meglio che cercare riparo dentro le loro grigie conchiglie”.
Tosse adorava le macchine gialle, lo mandavano fuori di testa, diceva che erano l’inchiostro di Dio sull’asfalto. Ma quella volta avevano beccato un’auto lilla.
Trascinato a peso fuori dell’abitacolo, il Paguro si era rannicchiato su un fianco, il sangue che si allungava verso la portiera in due lunghi nastri appiccicosi. Tosse ne rivoltò il corpo con la punta di un anfibio. Lurida mezzabestia. Si chinò sui talloni e fece segno a Tarlo e Fibbia di frugare tra i sedili. Se fossero stati fortunati avrebbero forse trovato qualche ludofiala o un paio di pasticche di cardiomenta. Il Paguro respirava ancora: deboli rantoli che gli gonfiavano le guance ai lati della mascherina. Dietro di lui, una mezza dozzina di cavi e cannule di plastica serpeggiava fino ai macchinari a bordo dell’automobile: in un paio scorreva un liquido color ambra, un terzo era pieno di scuro sangue venoso. Tosse allungò una mano sul viso del Paguro e gli strappò la mascherina. Le labbra erano una turgida ferita viola, il naso un bitorzolo con due orifizi asimmetrici. Rimosse la visiera: due enormi occhi acquosi lo stavano scrutando senza espressione, una sfumatura lilla nelle iridi dilatate. “Guarda, guarda” lo canzonò Tosse, “davvero una sensibilità commovente per il colore. Non sapevo che i Paguri s’interessassero ai frivoli attributi della carrozzeria. Pensavo vi coloraste a seconda delle eccedenze di vernice”.
Si portò la visiera all’altezza degli occhi e osservò l’intellivetro in trasparenza: file di numeri si calibrarono sullo sfondo della periferia grigia e ricaddero, azzerate, lungo i bordi delle lenti. L’Head Up Display era stato reso inattivo dall’agonia del Paguro. Era ora di tagliare le cannule del senzagambe, scaricare l’ossigeno medicale dalle bombole sul retro della sua conchiglia (sì, chiamavano così i veicoli dei Paguri), raccattare qualche flaccone di plasma e filare via. Non era una buona idea indugiare a lungo sulla strada (altri simbionti potevano vederli): dovevano ancora agganciare la scocca con il grosso uncino d’acciaio e svolgere una mezza dozzina di metri di cavo oltre il bordo della carreggiata. In modo che altri No-Tech tirassero la carcassa nell’erba, terminassero di spolparla e alla fine potessero darle fuoco per il falò rituale.
Tosse estrasse il coltello dallo stivaletto e raccolse un bolo di saliva sulla punta della lingua. Provava sempre un piacere sublime a uccidere un Paguro. Sapeva che alcuni clan di No-Tech non esitavano a mangiarne le carni dopo averli inpalati sui piantoni dello sterzo e arrostiti al fuoco delle gomme delle loro auto. Sputò sulle labbra della sua preda moribonda e raccolse in una mano una manciata di cannule: nel suo palmo erano tiepide e umide di condensa. Lui no, non avrebbe mai assaggiato la carne… di un cazzo di Paguro lilla.
Alle sue spalle Tarlo ritrasse la testa dall’abitacolo e gli mostrò una dozzina di pillole color prugna e due piccole fiale colme di liquido oleoso. “Benzodiazepine e Ludopryn. Nella conchiglia ce n’è qualche fiala in circolo, si sente ancora l’odore”. Si mise le pillole nel taschino della camicia, ruppe una fiala e la trangugiò. Sull’altra fiancata della macchina, Fibbia stava cercando di liberare un oscilloscopio dal groviglio di apparecchiature diagnostiche.
Le rampe del grande raccordo anulare – lungo la periferia est della città abbandonata – erano sgombre e silenziose; le immense autostrade a nove corsie si aggrovigliavano l’una sull’altra in pigre volute di cemento. Con il trascorrere degli anni erano diventate sterili simulacri della motorizzazione di massa; da quando gli umani avevano abbandonato la metropoli nelle mani dei servobot e della loro corte dei miracoli di macchine agonizzanti, l’asfalto – una volta lucido e traboccante di sensori intelligenti – era diventato una schifosa vecchia pelle di serpente, nera e piena di crepe. Tra una buca e l’altra fiorivano macerie accumulate in decenni d’incuria e intemperie; ciuffi di vegetazione rachitica affilavano le loro spine nel vento. Il resto dell’erosione era opera dei No-Tech, che salivano sulle rampe sopraelevate a razziare blocchi di cemento, asfalto e catrame da portare di sotto per farne case e barricate. Qualcuno di loro aveva trovato il modo per riattivare qualche biosensore e venderlo come antistress al mercato nero.
I Paguri-simbionti usavano di rado le rampe sopraelevate, soltanto per necessità e a velocità ridotta, con i finestrini abbassati e l’arco delle balestre che spuntava di fuori. Per loro le città – completamente deserte, eccetto che per qualche servobot autoctono – erano da evitare come la peste; soprattutto si guardavano bene dal percorrere gli svincoli dei raccordi metropolitani, dove bande di No-Tech accucciate sui cavalcavia potevano tendere agguati e bersagliare di pietre le conchiglie che passavano sotto. Il Paguro lilla era stato catturato così, mentre sfilava lento lungo la rampa circolare che scendeva verso la Provinciale 26, la canna di un fucile a pallettoni che sbucava dal finestrino di sinistra.
Tosse recise i tubi collegati con gli apparecchi che tenevano in vita il Paguro, estrasse dalla tasca un piccolo arnese di gomma con una minuscola ventosa in punta, lo avvicinò agli occhi della vittima e con un gesto deciso gli strappò entrambe le lenti corneali. Lilla, bleah. Qualunque uso ne avesse fatto – ornamento, merce di scambio o hardware ottico – valevano una fortuna. Si sollevò e mise la testa all’interno dell’abitacolo. Odore di piscio stantio si levava da un pappagallo incastrato accanto alla leva del cambio; le superfici degli interni erano lucide di condensa, color giallo sporco, macchie scure punteggiavano entrambi i sedili. Un paio di cicalini d’allarme stavano suonando inascoltati; in mezzo a una dozzina di apparecchi strani, ordinatamente impilati uno sull’altro nel fondo della conchiglia, il cardiofrequenzimetro pulsava piatto.
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