Con il terzo capitolo delle nuove storie di Mondo9 arriva anche una nuova nave, la “Coriolano” appunto, che farà da teatro alle avventure di Naila e del suo aguzzino, il Mechardionico Asur. Cambia radicalmente anche lo scenario: non più il deserto ma la giugnla pluviale. Ecco un assaggio del racconto…
Foglie, cespugli, rampicanti.
Un incubo claustrofobico di clorofilla e acqua piovana.
Grappoli di fiori si allungavano a terra da altezze inimmaginabili, come coaguli di carne esplosa. E poi aculei, spine, corolle dalle tinte impossibili.
Naila crollò con le ginocchia nel fango e nascose il viso tra le mani. Avevano camminato per ore senza toccare cibo, e adesso era esausta, non riusciva più a muovere un muscolo. Rimase qualche istante così, in silenzio, accoccolata nell’acido lattico del suo sfinimento. Avvinta da un misto di rabbia e crampi.
Sollevò la testa e agganciò gli occhi del suo aguzzino. “Sfilamelo. Uccidimi ora!”. Altrimenti, ma questo lo tenne per sé, lo farò io con le mie mani…
Il Mechardionico fece scivolare tra le dita una spanna di catena, la sua personale idea di pietà. Non aveva alcuna intenzione di privarsi della compagnia della ragazzina, né di assecondare i suoi stupidi capricci di libertà. Ma le avrebbe permesso di riposare un po’, che riprendesse pure fiato e vigore per l’ultimo tratto di salita!
Del resto, ormai erano quasi in cima. La gola doveva essere vicino, da qualche parte là sotto. Sentiva il suono della cascata.
C’erano dei rottami di metallo lì attorno. Ruggine vecchia di anni, sepolta da strati di marciume fermentato. La percepiva come una risacca morta, che loro – gli intrusi – avevano incautamente agitato con i loro passi.
Annusò l’aria. Era satura di vapore proveniente dalla cascata, che si sfilacciava in alto, tra le fronde degli alberi.
Pioggia, un martellare di biglie d’acqua dai riflessi di giada.
Lo Strappacuori si accucciò contro il tronco di un gigantesco baobab, capo chino e catena lasca nelle mani.
Naila continuava a fissarlo. Sapeva bene che era cieco e non poteva vederla, ma era sicura che l’intreccio di anelli che si allungava dal suo petto gli stesse comunicando molto di più di quanto avrebbe fatto un paio di semplici occhi. Temperatura corporea, battito cardiaco, pensieri, emozioni… Recuperò nel palmo un tratto di catena e infilò all’indice uno degli anelli che aveva a tiro.
Il Mechardionico sollevò la testa di scatto. Le orbite due fessure vuote.
Naila infilò un secondo anello.
Il nero abisso negli occhi della creatura si velò di una nota verdastra, come se l’ambiente circostante avesse trovato il modo d’insinuarsi al loro interno.
Terzo dito.
Il metallo gemette e dalle orbite del Mechardionico cadde un rivolo di trucioli scuri.
Cos’erano quelle? Lacrime grattuggiate? Naila si sentì strattonare e cadde a quattro zampe nel fango. La catena le venne strappata dalle mani, lasciando il pollice a sanguinare. Boccheggiò in cerca d’aria, la testa che girava. Istintivamente portò una mano sotto il seno sinistro e toccò lo spillone. Era ancora al suo posto, conficcato nella carne fino al cuore. Quanto fosse lungo non poteva dirlo, almeno cinque dita, prima che iniziasse la catena. Il Mechardionico gliel’aveva infilato poggiandole sul petto una strana scatola di latta arrugginita con due maniglioni d’argento ai lati e una serie di lenti e ghiere graduate al posto del coperchio. Quando lo spillone era penetrato nel torace non le aveva fatto più male di una puntura d’insetto.
Ora però era terrorizzata che per qualsiasi banale motivo – impigliarsi in un ramo, per esempio – lo spillone potesse sfilarsi, facendola precipitare in un ignoto oceano di agonia e dolore. O che magari le venisse deliberatamente strappato dal petto per punirla di qualcosa. Sarebbe morta, nel caso? E poteva mai sperare di reinfilarselo da sola senza l’ausilio della scatola di latta che il suo aguzzino – lo Strappacuori – portava a tracolla sulla spalla.
Si tirò in piedi. Il Mechardionico doveva aver pensato che si fosse riposata abbastanza e le diede un breve, calibrato strattone, come avrebbe fatto un padrone con il proprio cane al guinzaglio.
Succhiandosi il pollice sanguinante scavalcò, semisepolto dalla vegetazione, quello che sembrava il mozzo arrugginito di una grossa ruota. Come accidenti fosse arrivato fin lassù restava per lei un mistero.
Qualcosa sfarfallò tra loro, metà libellula meccanica e metà farfalla con due riccioli di lamiera al posto delle ali.
“Questa è una pista”, sentì rispondere attraverso la catena. “Una vecchia pista per navi”.
Era così che i due avevano cominciato a comunicare: attraverso parole e pensieri che fiorivano dagli anelli della catena come ossidazioni spontanee del metallo. Da quei frammenti di conversazione aveva appreso che lo Strappacuori sia chiamava Asur, che era nato su una nave e ne aveva cambiate parecchie prima d’imbarcarsi sull’Afritania, con il grado di Vaporiere in Seconda e di rimanerne infettato. Quanto all’obiettivo della loro lunga e tormentata marcia (quattro giorni di deserto e altrettanti di giungla pluviale), aveva genericamente fatto cenno a un prezioso oggetto che intendeva recuperare a ogni costo, trovato il quale lei – Naila – avrebbe riavuto indietro il suo cuore. Intonso e perfettamente funzionante.
Mentre camminava un paio di metri dietro la creatura che la teneva al guinzaglio, la ragazzina rovesciò la testa all’indietro, beve qualche sorso di pioggia e strizzando le palpebre sbirciò attraverso le fronde degli alberi. Il cielo pareva lontanissimo, sullo sfondo di un reticolo di rami, foglie dalle forme arcane e fiori polposi che assomigliavano a tagli di macelleria.
Nell’aria, ronzio d’insetti che assomigliavano a bulloni volanti.
Dall’alto colava sulle loro teste un sanguinaccio tiepido di petali marci e pioggia oleosa, segno che il temporale monsonico aveva esaurito la sua foga per lasciare il posto a uno stillicidio di gocce che sarebbe andato avanti fino al tramonto e oltre.
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