Dove sono finiti Naila e Walid? Possibile che il deserto li abbia inghiottiti cancellandone ogni traccia? Samyr non riesce a rassegnarsi per aver fallito la ricerca e accetta di fare un ultimo, pericoloso tentativo: alzarsi in volo, assieme all’alchimista Khaled, a bordo di un pettinatore ancora allo stadio di prototipo. Questa è la storia di quel volo. E non solo…
Bianco abbacinante. Una distesa che arrostiva gli occhi. Piatta come un mare di latte.
Il Mechardionico mosse qualche passo scricchiolante sulla crosta di sale, serrò il pugno e batté due colpi sulla lamiera per svegliare i compagni.
La struttura era alta quasi quattro metri, un groviglio minimale di piani intersecanti che luccicavano al sole acido di mezzogiorno cercando di far fiorire qua e là esili petali d’ombra. Senza peraltro produrre grandi risultati.
Per quanto il calore fosse l’ultimo dei suoi problemi, il metallo bruciava e cercava di ritrarsi dal cielo di fiamma.
La creatura fece per abbattere un terzo colpo. Ma non ce ne fu bisogno. La struttura venne percorsa da una serie di suoni, poi qualcosa sulla sua sommità si aprì come uno granchio e saltò giù nel sale. Pochi istanti dopo altre sezioni si districarono rumorosamente dal garbuglio e balzarono a terra a piedi uniti. Fino all’ultima rimasta, che drizzò semplicemente la schiena e sollevò adagio una parvenza di testa.
Otto sagome antropomorfe erano in piedi di fronte all’essere che le aveva destate; otto Mechardionici malconci, ma scintillanti di luce e di attesa. Attorno ai loro corpi rugginosi, l’ombra di mezzogiorno si era ritratta a niente.
Sfilacciato nel cielo biancastro, uno stormo di aliquadre s’incuneò in quota all’interno di un oblungo coagulo di nubi temporalesche.
Il Mechardionico che con il suo pugno aveva sciolto l’intrico di lamiere si chiamava Alef e come gli altri era cieco, muto e sordo, ma aveva imparato abbastanza bene il metallese da parlarlo e percuoterlo con la dovuta perizia.
Anche lui al suo interno conservava ciò che era rimasto di un cuore umano: un pugno di carne cotta, ormai diventato coriaceo come il cuoio, che continuava ostinatamente a battere nonostante il suo ospite non fosse altro che una rigida statua di metallo, insensibile a tutto eccetto che al calore e ai suoni vibranti del metallese.
“Non siamo abbastanza per niente” disse dopo un po’. “Non saremo mai una nave, e neppure uno pneumosnodo”.
Il sale a perdita d’occhio faceva sembrare il deserto un foglio di carta senza pieghe, punteggiato di rottami che affioravano qua e là dalla crosta immacolata. Quel regno di luce abbagliante e riflessi di fuoco era la terra dei ciechi Mechardionici, anche se Alef proveniva da ben più lontano, un luogo che gli aveva consegnato tra le mani il destino del capo…
C’erano undici cuori in tutto nelle nove creature, troppo pochi per trasformarle in altro e indurre il metallo a fare il salto verso uno nuovo stato e una nuova specie.
“Ho sentito un odore” disse il terzo della fila. “C’è qualcosa nel vento, il lezzo di una nave”.
Alef gli si parò di fronte. “Qualunque nave è troppo veloce per noi. Siamo forti, ma non abbastanza agili da saltare a bordo in corsa, Duecuori”.
“Possiamo però metterci nella sua scia e guardare tra i rifiuti”.
Alef rovesciò il capo all’indietro. Il compagno aveva ragione, c’era una nota fumosa nel vento: olio combusto e carne che imputridiva al sole. “Quante ruote abbiamo?” chiese riportando gli occhi ciechi sulla fila.
Un’altra voce, che era solo il prodotto di scricchiolii e abili vibrazioni nel metallo: “Tre!”.
Avanzare sul mare di sale sarebbe stato più facile che sulla sabbia, ma dovevano distribuire adeguatamente i pesi per evitare di spaccarne la crosta e finire per arenarsi.
“Non possiamo andare tutti. Serve leggerezza e velocità”.
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