Un piccolissimo assaggio del terzo capitolo della saga della Robredo, per portarvi sulla sinistra Isla de Chatarra, dove gli enormi pachidermi a ruote vanno a morire come vecchi elefanti…
Lara incrociò i remi in grembo e si guardò il dorso delle mani. Nessun tremore, effetti collaterali zero. Scrutò il pelo dell’acqua, lì dove la pala aveva lasciato un piccolo gorgo di schiuma grigiastra, poi allargò lo sguardo sulla distesa lattiginosa.
Pochi raggi di sole tiepido spalmavano il mare di riflessi di una sfumatura malata, febbricitante, che diventava via via più livida sotto la massa nera che si stava accumulando a est.
Chatarra era vicina, l’annusavano nell’aria.
Da una sacca a poppa arrivava lo squittio nervoso delle esche.
Lara raccolse una seconda pasticca nel palmo e se la cacciò in bocca rovesciando la testa all’indietro.
Marcelo, da poppa, le allungò la borraccia senza proferire parola. Guardò i nuvoloni scuri.
“Paura?”
Il ragazzo alzò le spalle, sulla difensiva. “Tu?”
“Un po’. Tutti l’hanno avuta prima di noi. È normale.”
Il suo fratellino – quattro anni più giovane – ritrasse la mano e trangugiò un sorso.
“Quante ne hai prese di pasticche?”
Marcelo distolse gli occhi dall’acqua. “Tre.”
“Fa’ vedere le mani.”
Due palmi esageratamente diafani sfarfallarono verso l’alto.
“Tienile ferme. La lingua adesso.”
Il ragazzo spalancò la bocca.
“Gli occhi.”
Marcelo sollevò sulla fronte i suoi occhialini da argonauta.
Un gabbiano svolazzò per un po’ sopra di loro e andò a posarsi a prua, cercando l’equilibrio su una zampetta sola. Aveva entrambi gli occhi velati dalla cataratta, perlacei a vuoti, l’addome e parte del petto vaiolati di scaglie luccicanti.
Era inquieto e nervoso, forse sentiva nell’aria odore di tempesta.
Un istante dopo cadde a corpo morto sul fondo della barca e si dimenò furiosamente nel tentativo di dispiegare le ali.
Lara scattò indietro, un remo si sfilò dallo scalmo e scivolò in acqua.
Il gabbiano continuava a dibattersi sul fondo, lanciando stridii disperati. Ma non riusciva a districarsi dalla pozza angusta in cui tutto d’un tratto si era ritrovato. Sembrava essersi improvvisamente appesantito al punto da non riuscire più a darsi lo slancio per spiccare il volo. E l’unica zampetta non gli permetteva di reggersi in piedi.
La barca oscillò, sbatacchiandolo da una parte all’altra della carena.
“Toglimi quella bestiaccia di lì!”
Marcelo si tirò in piedi reggendosi a stento sulle gambe, sfilò dallo scalmo il remo superstite e lo puntò verso prua.
Minacciato dal movimento, il volatile perse ogni controllo. Ormai aveva le ali fradice d’acqua di sentina. E saltellava come un pesce strappato al suo elemento naturale.
“Buttalo fuori, buttalo fuori!” Lara urlava.
Il giovane protese la lunga asta di legno… Ma il gabbiano, anziché calmarsi e arretrare, attaccò a beccate. Quasi cieco, saltellò combattivo sulla pala, deciso ad aggrapparsi a quel poco di vita che gli restava.
Al che Marcelo, con un movimento rapidissimo, sollevò il remo e lo mulinò di novanta gradi sparando la bestiola fuoribordo.
Il volatile fu catapultato a una decina di metri dalla barca e cadde con un orrido splash nell’acqua limacciosa.
Fremere d’ali e schiuma.
Un istante dopo, il corpo appesantito cominciò ad affondare. E le acque colme di riflessi si chiusero sull’insperato boccone.
Lara si chinò a sedere sulla panca di poppa. Aveva sempre odiato i gabbiani, li trovava rivoltanti, e nei loro confronti nutriva un terrore sordo.
“Pensi che avesse il Morbo?” chiese Marcelo sporgendosi a recuperare l’altro remo. Avrebbe fatto meglio a darsi da fare lui per un po’; l’isola era già in vista da tempo e, complice la corrente, sembrava che si stesse avvicinando sempre di più.
“Certo che sì, non l’hai visto? Il metallo stava colando nel suo corpo ed era diventato troppo pesante per volare.”
Dove il gabbiano aveva opposto la sua strenua resistenza, sul fasciame e sulla panchetta di prua, c’erano schizzi di guano, lucidi come gocce di madreperla. Marcelo si chinò a esaminarli, attento a non posare le mani da nessuna parte.
Lara scovò uno straccio dal borsone che aveva tra le gambe e glielo lanciò. “Pulisci bene e quando hai finito gettalo in mare!”
Il sole sparì dietro una nube.
***
L’isola era un immenso conglomerato di metallo, ciò che rimaneva di un cimitero di relitti accatastati l’uno sull’altro fino a comporre una “terraferma” di ruggine e lamiere spoglie.
Un groviglio di ferraglia. Un nodo gordiano di carcasse marce, di catorci putrescenti.
Un tirapugni che emergendo dalle acque giurava al cielo di farlo a pezzi con un solo gancio ben assestato.
Bastimenti, vascelli a ruote, unità madri e pneumosnodi… Morti o moribondi. O semplicemente messi troppo male per essere recuperati e quindi in un letargo vigile e oltremodo pericoloso.
Lara e il suo fratellino Marcelo (quindici anni e, a dire il vero, ancora un apprendista) andavano laggiù perché erano Avvelenatori. A loro spettava l’ingrato compito di uccidere il metallo prima che il metallo uccidesse loro. Uomini della Gilda, intossicatori di professione, che usavano la chimica contro la metallurgia, le pozioni contro le lame.
Stroncare un pachiderma di 25.000 tonnellate di dislocamento era un lavoro che richiedeva coraggio, fiuto e sensibilità. Il sapiente uso di esche e veleni.
E loro, in due, avevano tutte e tre queste doti, sebbene nient’affatto equamente distribuite.
Isla de Chatarra o più semplicemente Chatarra (“Ferraglia”) era la loro meta.
Lara ciondolò la testa in avanti e sbarrò gli occhi destandosi dal torpore. Si era abbioccata al suono dei remi che entravano e uscivano dal pelo dell’acqua. Dietro le spalle di Marcelo, impegnato alla voga, Chatarra cresceva all’orizzonte come una cisti infetta, avvolta in una cappa di bruma salmastra.
Ne sentiva l’odore.
Ne vedeva i bagliori prodotti dal rincorrersi del sole sul metallo, muti colpi di mortaio sparati sull’acqua in direzione della barca in avvicinamento. Riflessi, balenii, cruda gibigiana di luce che trapassava di tanto in tanto la foschia.
“Cosa vedi?” domandò Marcelo.
“Metallo. E acqua ferma.”
Cielo basso, da grattare con le unghie.
Marcelo lasciò i remi e si voltò a guardare. Una goccia gli cadde sulla gobba del naso.
Il sole scomparve di nuovo tra le nubi.
***
Regola n. 1: restare vicini.
Regola n. 2: mai scendere nelle stive.
Regola n. 3: mai togliersi la mascherina.
Regola n. 4: anche se il lancio è stato sbagliato, mai cercare di recuperare un’esca.
Regola n. 5: chiamare subito se ci si è persi o si ha bisogno di aiuto.
Regola n. 6: la ruggine di per sé non ha nulla a che fare col Morbo, ma è meglio non toccarla. Se ti tagli, hai i farmaci che ti proteggono.
Regola n. 7: Mai farsi prendere dal panico…
***
Nebbia. Un umido sudario bianco.
Da strappare a morsi fino a riempirtene la bocca per poi doverla sputare.
Ovattava i suoni, li rendeva lontani e vicini allo stesso tempo.
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